La periferia di Bologna ha una sua bellezza scomposta, come una ciocca di capelli che sfugge a un’acconciatura perfetta. E’ in quel dettaglio che da principio noti distrattamente, ma che poco alla volta ti sedimenta dentro e si prende il suo spazio :
è un negozio di ferramenta che resiste da generazioni,
un vecchio cinema che trovi sempre semivuoto,
una fabbrica abbandonata che diventa tela su cui inventare mondi
l’odore del ragù che ti solletica il naso mentre passi davanti a certe palazzine
le rose nei giardini dei condomini, che non sanno mai che stagione è e così per sbaglio fioriscono anche a Dicembre
le badanti appollaiate come chiocce sulla solita panchina, la domenica mattina, a scambiarsi chiacchiere e polemiche
Sono note a margine, storie piccole in una città che si sta sempre più aprendo verso l’esterno, e che sarebbe bello ma utopistico pensare di proteggere dalla massificazione. E’ proprio in queste piccole storie di periferia che cerco, e trovo, le tracce di un passato che come un maglione liso allarga le sue trame lasciando scivolare via irrimediabilmente pezzi di memoria; allora mi dico che bisogna afferrarli in fretta, questi stralci di vita e raccogliere foto e pagine di giornali, non stancarsi di fare domande, imprimere nella mente voci e luoghi.

Insieme al passato fiuto anche le impronte del presente che incombe, che dà nuove forme e nuovi volti alla città; a volte imbruttendola e rendendola più spaventosa, è vero, ma per l’amore che le porto sto imparando ad amare anche le sue cicatrici: sotto quella patina di trascuratezza, brutture architettoniche, la pericolosità di certe strade e quartieri scorgo in continuazione fotogrammi di vita da salvare: un prato spelacchiato che diventa campo da calcio per bambini di etnie diverse; un angolo di strada dove nasce, coraggioso, un piccolo laboratorio creativo; un microscopico angolo di verde pubblico curato da volontari.
E credo che paradossalmente alcune cicatrici le lascerei, sulla pelle stanca e ruvida di questa periferia, vorrei vederle diventare storia, imprimersi più a fondo nel tessuto e nella memoria urbana, anche quando sono un marchio di infamia o il doloroso ricordo di una sconfitta. Penso a quei giganti abbandonati che sono il complesso di Casaralta e della Ex Manifattura Tabacchi (ora in fase di riqualificazione): malinconici relitti terrestri che vorrei veder diventare museo della loro stessa storia, raccontare di sé e delle vite che li hanno attraversati, di come Bologna è cambiata con e grazie a loro.

Spesso, mentre passeggio per i quartieri periferici, ripenso a una persona incontrata qualche anno fa durante un viaggio in Vietnam: una vecchina completamente senza denti che sorrideva in continuazione e senza vergogna. Ecco, per me la periferia di Bologna è questo: un sorriso aperto e sdentato, una grazia malconcia e vissuta, in fondo un viaggio fatto di impressioni.